Nel contesto della mobilità connessa e dell’intelligenza artificiale, i dati rappresentano il nostro principale punto di riferimento.
Ne raccogliamo milioni ogni giorno, provenienti da veicoli, sensori, feedback utente e fonti esterne. Sono la materia prima con cui costruiamo modelli predittivi, strategie di business, prodotti assicurativi più mirati e sistemi di scoring più equi. Eppure, questa stessa materia può tradirci. Perché i dati non mentono, è vero, ma possono facilmente portarci fuori strada se non sappiamo leggerli con spirito critico.
Uno dei problemi più insidiosi è rappresentato dai bias, quei pregiudizi nascosti nei dati o nei modelli che finiscono per alterare le conclusioni a cui arriviamo. A volte il problema nasce da un’eccessiva fiducia nei numeri: per esempio, possiamo notare che un certo profilo di utente ottiene punteggi più bassi nei sistemi di valutazione del rischio e concludere, in modo affrettato, che si tratti di guidatori peggiori. Solo un’analisi più profonda può rivelare che, magari, quei punteggi dipendono non dal comportamento ma dalla semplice quantità di chilometri percorsi. Una distorsione simile può penalizzare chi guida molto per lavoro o per necessità, anche se adotta stili di guida impeccabili.
Ci sono poi situazioni in cui il contesto altera completamente il significato dei dati. Modelli sviluppati su basi storiche possono diventare inattendibili se non considerano l’evoluzione del comportamento umano nel tempo o le differenze tra aree geografiche. Un esempio estremo è stato il periodo della pandemia, che ha stravolto le abitudini di mobilità e reso obsoleti molti modelli predittivi basati su epoche precedenti.
Anche il campione su cui costruiamo le nostre analisi può diventare un filtro fuorviante. Se ci concentriamo solo sugli utenti che partecipano a determinati programmi – come i loyalty program tradizionali – rischiamo di escludere segmenti interi della popolazione, compromettendo la rappresentatività del modello e, con essa, la sua equità. È il classico caso del “bias di sopravvivenza”: guardare solo a chi è già dentro il sistema, ignorando chi resta fuori.
Tutto questo ci porta a un punto chiave: l’intelligenza artificiale non è mai davvero neutrale. Gli algoritmi apprendono da ciò che gli forniamo, e se i dati sono viziati da errori o parzialità, anche le risposte lo saranno. In certi casi, i modelli possono persino amplificare quei bias, creando una sorta di loop in cui i pregiudizi iniziali diventano sistemici.
Per evitare questi rischi, è necessario adottare un approccio più consapevole e critico alla costruzione dei modelli. Questo significa integrare fonti di dati diversificate, confrontare periodicamente le previsioni con i risultati reali per individuare derive, garantire la tracciabilità delle decisioni algoritmiche e, soprattutto, mantenere sempre l’intervento umano nei processi più critici.
Un esempio positivo arriva dal settore assicurativo, dove un operatore ha recentemente rivisto il proprio sistema di scoring introducendo un algoritmo correttivo per compensare il bias geografico. Analizzando in profondità i dati di mobilità urbana, il team ha notato che gli utenti di aree più congestionate risultavano penalizzati nei punteggi di rischio, nonostante non fossero responsabili degli stop-and-go frequenti o delle frenate brusche. L’adozione di una metrica dinamica, capace di leggere il contesto urbano in tempo reale, ha permesso di premiare comportamenti virtuosi anche in condizioni complesse. Il risultato: un modello più equo, una maggiore soddisfazione degli utenti e una migliore predittività dei sinistri.
Costruire un’intelligenza artificiale equa, utile e adattiva significa accettare che i modelli non saranno mai perfetti, ma possono e devono migliorare nel tempo. È solo così, con un’attitudine al miglioramento continuo e una vigilanza costante sui bias, che possiamo trasformare i dati in uno strumento reale di vantaggio competitivo. Riconoscere e gestire i bias nei dati non è solo una sfida tecnica, ma un’opportunità strategica. Le aziende che sapranno affrontarla con trasparenza, flessibilità e visione critica avranno un vantaggio reale nel mercato. I dati, se ben interrogati, diventano alleati preziosi per prendere decisioni più consapevoli, costruire prodotti più efficaci e generare fiducia nei propri stakeholder. L’intelligenza artificiale non sostituisce il giudizio umano, ma può amplificarne l’impatto positivo, se alimentata da metodo, rigore e intelligenza collettiva. È su questa combinazione che si gioca il futuro delle imprese data-driven.